due personalità contrapposte

Narcisismo e dipendenza affettiva: due facce della stessa ferita

September 09, 202512 min read

Per capire il narcisismo, bisogna prima capire l’ammirazione.
Non è amore, né conoscenza profonda: è un incontro di sguardi che si riconoscono con un giudizio positivo, rapido e superficiale. Certifica la dignità sociale di una persona, ma mantiene una distanza.
L’ammirazione è piacevole, ma anche solitaria e a volte traumatica, perché chi ammira e chi è ammirato restano entrambi “fuori” dalla relazione. Il “bambino ammirato” ne è un esempio: lodato e messo al centro, ma senza un contatto autentico.

L’effetto euforico di essere ammirati può creare una sorta di “fame” che spinge a ricercarlo continuamente. Come ogni dipendenza, la gratificazione è temporanea e non riempie il vuoto interiore.
Se somministrata costantemente dai genitori, l’ammirazione può diventare un “nutrimento” che sostituisce lo sviluppo di una sana autostima. Quest’ultima, spiega Charmet, nasce dal corpo, dal lavoro, dalle relazioni, dai risultati sociali e dal radicamento familiare. È un “voto vicino alla sufficienza”, che tollera limiti e frustrazioni.

Oggi, questa idea di autostima “normale” è rifiutata: per restare visibili bisogna essere speciali, stupire, eccellere. Chi non ci riesce rischia di finire nel cono d’ombra e di sentirsi escluso.
Questo genera una condizione diffusa: la noia, intesa non come serenità, ma come incapacità di stare con sé stessi, alimentata da una società che pretende velocità e soluzioni immediate.

Quando il Sé non è all’altezza degli ideali, nasce la vergogna, emozione sociale che si attiva sotto lo sguardo altrui. Le strategie difensive più comuni sono:

  1. Esasperare l’immagine fino all’esibizionismo.

  2. Attaccare gli altri per ottenere visibilità, come fanno gli haters.

  3. Scomparire per ritirarsi dal gioco sociale.

Ammirazione e vergogna sono poli opposti ma complementari: luce e ombra che si alternano continuamente.

Narcisismo: dalle radici sane alle forme patologiche

In psicologia, il narcisismo non è sinonimo di disturbo. Esiste un continuum che va:

  • dal narcisismo sano, presente e utile fin dall’infanzia,

  • a forme più rigide che possono evolvere in narcisismo patologico,

  • fino alle espressioni estreme, vicine al narcisismo perverso o al comportamento antisociale.

Fin dai primi giorni di vita, il bambino cerca lo sguardo del genitore: è il primo “specchio” in cui scopre di esistere.
Se questo rispecchiamento è autentico — cioè restituisce un’immagine reale, accogliente e coerente — il bambino sviluppa una percezione solida di sé.
Se invece lo specchio riflette un’immagine distorta, modellata su aspettative o paure del genitore, la percezione di sé diventa fragile e frammentata.

Quando il bisogno di riconoscimento è soddisfatto in modo adeguato, si sviluppa un narcisismo sano.
Questa condizione è vicina al concetto di
autostima: la capacità di mantenere una visione positiva di sé, aperta alle critiche costruttive e capace di regolare emozioni e relazioni.
Chi ha un narcisismo sano:

  • distingue la sfera personale da quella professionale,

  • mantiene il senso di continuità anche nei fallimenti,

  • riconosce il proprio valore senza dipendere costantemente dalle conferme esterne.

Il narcisismo diventa patologico quando il bisogno di ammirazione assorbe tutta l’energia psichica della persona.
Il vuoto lasciato da un riconoscimento mancato o inadeguato viene riempito con una
ricerca compulsiva di conferme: like, attenzioni, approvazione.
Qui il Sé autentico passa in secondo piano, sostituito dal bisogno di ottenere “dosi” di riconoscimento.

  • Nel narcisismo sano, l’autostima resiste anche alle delusioni, permettendo di affrontare emozioni negative e conflitti.

  • Nel narcisismo patologico, la frustrazione diventa insopportabile: senza conferme esterne, l’autostima crolla e si cercano strategie di fuga, spesso attraverso altre dipendenze.

Come sottolinea Luca Valerio Fabi, il narcisismo patologico è un disturbo della regolazione dell’autostima, resa instabile dalla dipendenza totale dalla validazione altrui.

Due volti della stessa fragilità

Il narcisismo patologico si presenta in due forme principali:

  1. Grandioso – caratterizzato da esibizionismo, senso di superiorità e bisogno costante di ammirazione.

  2. Vulnerabile – più introverso, sensibile alle critiche e segnato da insicurezza profonda.

Sono due espressioni diverse dello stesso nucleo fragile: un bisogno di essere visti che non ha trovato risposta adeguata.

Grandiosità e vulnerabilità: due facce dello stesso narcisismo

Nel narcisismo grandioso il successo non basta: serve il trionfo. La soddisfazione non nasce dal raggiungere un obiettivo, ma dal superare gli altri. È una forma di autoaffermazione alimentata dalla competizione, in cui primeggiare diventa sinonimo di sopravvivenza. Questa tensione costante, però, è faticosa e richiede continue “ricariche” — talvolta tramite comportamenti compulsivi o dipendenze — per mantenersi sempre al massimo.

Sul versante opposto, la vulnerabilità narcisistica resta dietro le quinte. Qui troviamo vuoto interiore, vergogna, ipersensibilità al rifiuto e tendenza al ritiro. All’esterno può sembrare timidezza, ma dentro convivono segrete fantasie di grandezza. Il narcisista vulnerabile oscilla tra sentirsi superiore (senza mostrarlo) e sentirsi inferiore, alimentando invidia e insicurezza.

In entrambi i casi, il bisogno di conferme esterne è centrale:

  • Grandioso → le cerca apertamente, con atteggiamento competitivo e sprezzante.

  • Vulnerabile → le insegue in modo indiretto e mascherato, cercando di evitare rifiuti.

Così, dietro la facciata di potere o fragilità, si nasconde lo stesso timore: scomparire dal centro della scena.

Aggressività e modalità espressive del narcisismo

Nel narcisismo patologico l’aggressività si esprime in modi diversi a seconda della struttura di base:

  • Grandioso → può usare sia un’aggressività proattiva (pianificata, strategica) sia reattiva (impulsiva, difensiva).

  • Vulnerabile → tende invece a un’aggressività reattiva o passiva, meno evidente ma altrettanto incisiva nelle relazioni.

Questa distinzione è utile anche in terapia di coppia: con l’aggressività attiva si lavora su reazioni dirette e visibili, mentre quella passiva richiede di individuare dinamiche sottili e spesso inconsapevoli.

Overt e Covert: come si mostrano
Grandiosità e vulnerabilità non si distinguono solo per contenuto, ma anche per
modalità espressiva:

  • Overt → manifesta apertamente i propri tratti.

  • Covert → li nasconde dietro maschere più sottili.

Possiamo immaginare il narcisismo come un palcoscenico con due ruoli principali:

  1. Il narcisista grandioso

    • Overt: ostenta superiorità, reagisce in modo esplosivo agli ostacoli, cerca costantemente ammirazione.

    • Covert: dissimula la propria superiorità dietro falsa modestia o sarcasmo, ma lascia trapelare disprezzo.

  2. Il narcisista vulnerabile

    • Overt: espone apertamente fragilità e insicurezza per ottenere attenzioni e cure, quasi rivendicando un “privilegio” legato alla sofferenza.

    • Covert: si ritira in silenzio e vergogna, ma coltiva fantasie di grandezza e un velato disprezzo verso chi considera “inferiore”.

Queste due dimensioni — grandiosità e vulnerabilità — sono in realtà due lati della stessa medaglia. Possono alternarsi, convivere o sovrapporsi nella stessa persona. Riconoscere come si esprimono (apertamente o in modo nascosto) è fondamentale per interpretare i comportamenti e comprendere le difese in gioco.

Due modalità di nascondere la parte autentica

Le persone con narcisismo patologico condividono un’esperienza di fondo: fin dall’infanzia hanno imparato a nascondere — o relegare in profondità — la parte più autentica, vulnerabile e bisognosa di sé. L’hanno fatto per proteggersi e per mantenere l’amore, la protezione o l’approvazione delle figure di riferimento, sacrificando proprio la dimensione che avrebbe permesso legami profondi.
È un paradosso crudele:
rinunciare alla capacità di amare per garantirsi l’amore dell’altro.

Non tutte, però, lo fanno nello stesso modo. Le “fortificazioni” interiori che si ergono per proteggere quella parte nascosta possono essere molto diverse. Possiamo distinguere due modalità principali: la struttura rigida e impenetrabile e la struttura meno rigida e più penetrabile.

1. La struttura rigida e impenetrabile

Questa configurazione si sviluppa nei primissimi anni di vita, spesso con un ruolo diretto e intrusivo dell’ambiente familiare. Il bambino non viene riconosciuto nella sua interezza, ma solo per ciò che sa fare, per la sua capacità di eccellere o per l’aderenza a un ideale già deciso dal genitore.
L’ammirazione arriva solo di fronte a prestazioni impeccabili; mostrare limiti o fragilità comporta indifferenza, svalutazione o, nei casi peggiori, freddezza e durezza. Non è necessariamente crudeltà consapevole: spesso il genitore è emotivamente immaturo e confonde il proprio valore con quello del figlio, percependo i suoi insuccessi come fallimenti personali.

Questa approvazione condizionata diventa presto una sorta di “droga emotiva”, legando rigidamente il valore personale alla performance. Per proteggersi dalla perdita di amore, il bambino impara a mostrare solo la parte “vincente” e a seppellire quella vulnerabile, considerata pericolosa perché associata al rifiuto.
La fortificazione che ne deriva è solida, quasi priva di spiragli. Con il tempo, la parte autentica diventa così nascosta da risultare estranea persino a sé stessi.

Alla radice c’è spesso un’invasione precoce: il genitore occupa lo spazio emotivo del figlio, scegliendo al posto suo interessi, passioni e persino tratti identitari, convinto di aiutarlo a “primeggiare”. È una cura mascherata da controllo, che soffoca la possibilità di esplorare se stessi e di sperimentare un’intimità autentica.
Questo stile genitoriale intrusivo produce due effetti duraturi: il bambino impara che per essere amato deve rinunciare a parti di sé, e associa l’intimità a un’esperienza di invasione. Da adulto, tenderà a vivere la vicinanza come una minaccia, soprattutto se qualcuno tenta di avvicinarsi alla sua parte fragile.

2. La struttura meno rigida e più penetrabile

In altri casi, la separazione avviene più tardi e senza un intervento così massiccio dei genitori. Qui, il contesto familiare non fornisce un’ammirazione costante, ma un’assenza di sguardo. Non essere visto è di per sé traumatico: comunica al bambino che non è degno di amore o attenzione.

Per reagire a questa invisibilità, il bambino elabora una strategia autonoma: costruire un’immagine talmente speciale e magnifica da non poter passare inosservata. Mostrare forza, autonomia e autosufficienza diventa il modo per attirare attenzione, sollevando i genitori — già poco disponibili — dal peso dell’accudimento. Questi, paradossalmente, lo ammirano proprio per questa capacità, rinforzando la difesa.

In questo caso è il bambino stesso l’artefice della barriera, che però è meno solida e lascia filtrare spiragli: la parte autentica affiora di tanto in tanto, generando consapevolezza della propria fragilità, ma anche timore che possa essere scoperta.
Questa struttura, tipica del narcisismo vulnerabile, mantiene la difficoltà con l’intimità: non avendo sperimentato una vicinanza autentica, la persona fatica a connettersi in profondità e a regolare il proprio mondo emotivo.

Quando la fonte di ammirazione si interrompe o il partner chiede reciprocità e impegno emotivo, il narcisista con struttura meno rigida e più penetrabile tende a escludere l’altro dalla propria vita. In quei momenti agisce come se fosse in modalità di sopravvivenza psichica: ogni energia è concentrata nel mantenere in piedi il proprio fragile equilibrio interno, rendendo secondario il benessere dell’altro.

Quando la dipendente affettiva incontra il narcisista

Anche nella dipendenza affettiva esiste una componente narcisistica, ma con caratteristiche diverse rispetto al narcisismo patologico “classico”. La persona dipendente, infatti, ha comunque incontrato — almeno in parte — lo sguardo del genitore. Non è stata vista pienamente, ma ha avuto accesso a momenti di intimità, seppur distorti: spesso si è “adultizzata” troppo presto, assumendosi il compito di prendersi cura delle fragilità emotive di chi avrebbe dovuto occuparsi di lei.

In questa dinamica, il bambino entra nel mondo emotivo dell’altro per sopravvivere e ricevere attenzione. Impara a essere indispensabile curando il “bambino ferito” del genitore. È una difesa, ma anche una risorsa: sviluppa empatia, capacità di cogliere i bisogni altrui e un forte desiderio di proteggere.
Il narcisismo che ne deriva è di tipo nevrotico: la persona si sente valida e amata solo quando si sacrifica per l’altro.

La differenza cruciale è questa:

  • Nel narcisismo patologico classico, la vulnerabilità è negata e nascosta dietro una corazza rigida.

  • Nella dipendenza affettiva, la vulnerabilità è esposta e usata come “moneta di scambio” per ottenere amore.

Entrambe le condizioni nascono da un bisogno di riconoscimento non soddisfatto, ma la strategia per ottenerlo è opposta.
A differenza della dipendenza affettiva — dove esiste un clima più caldo e qualche momento di sguardo e vicinanza — nel narcisismo patologico manca quasi del tutto l’esperienza di intimità emotiva. Il genitore non consente al bambino di “salvarlo” né gli offre uno spazio reale di contatto.

Da adulto, il narcisista tenderà a vivere la vicinanza come un’invasione o una minaccia. Ecco perché, negli incastri con persone affettivamente dipendenti, finisce spesso per respingere proprio chi cerca di “salvarlo”. Non è un rifiuto dell’amore, ma una difesa contro una vicinanza che riattiva il ricordo di controllo e perdita di libertà vissuti nell’infanzia.

Nella relazione tra narcisista e dipendente affettivo si crea così un equivoco emotivo di fondo:

  • La persona dipendente crede di poterlo salvare, convinta che dietro la corazza ci sia un bambino ferito in attesa di amore.

  • Quel bambino c’è davvero, ma per il narcisista ogni tentativo di “entrare” in quella zona protetta evoca la sensazione di invasione subita dal genitore.

Ciò che per la dipendente è un gesto di amore e cura, per il narcisista è una minaccia alla sopravvivenza emotiva.

Il risultato è un cortocircuito:

  • La dipendente si sente rifiutata e interpreta la distanza come mancanza d’amore.

  • Il narcisista si sente soffocato e reagisce con ulteriore chiusura o fuga.

Questo meccanismo rinforza le ferite originarie:

  • La dipendente conferma la convinzione di non essere mai abbastanza.

  • Il narcisista consolida l’idea che lasciarsi avvicinare significhi perdere libertà e sicurezza.

Quando la vicinanza diventa “troppa” — e per il narcisista la soglia è molto più bassa della media — scattano difese automatiche apprese nell’infanzia:

  • La fuga: sparire improvvisamente, ridurre i contatti, riempire l’agenda di impegni urgenti.

  • Il silenzio punitivo: interrompere la comunicazione per segnalare che “il limite” è stato superato.

  • L’aggressività improvvisa: scatti di rabbia o sarcasmo per far indietreggiare l’altro.

  • Il cambio di ruolo: passare da “bisognoso di attenzione” a “giudice critico” dell’altro.

Per la persona dipendente, questi comportamenti sono devastanti e percepiti come fallimenti personali.
Per il narcisista, sono strategie di sopravvivenza emotiva: servono a mantenere un equilibrio interno fragile, che teme possa crollare se l’altro si avvicina troppo alla sua parte vulnerabile.

Conclusione: il ruolo della terapia nel rompere il ciclo

Che si tratti di narcisismo patologico o di dipendenza affettiva, alla radice c’è sempre una ferita antica: il bisogno di essere visti, accolti e amati per ciò che si è, non per il ruolo che si è imparato a recitare.
Queste dinamiche, se non riconosciute, tendono a ripetersi nelle relazioni adulte, creando legami instabili e dolorosi.

Il percorso terapeutico diventa allora uno spazio sicuro dove poter esplorare, senza giudizio, le proprie parti negate o iper-esposte. Per il narcisista, significa avvicinarsi gradualmente alla propria vulnerabilità e riconoscerla come risorsa, non come minaccia. Per la persona con dipendenza affettiva, vuol dire imparare a nutrire il proprio valore indipendentemente dal bisogno di “salvare” l’altro.

Quando entrambi sono disposti a mettersi in discussione — e la coppia non è teatro di dinamiche pericolose, manipolatorie o violente dalle quali è necessario allontanarsi per salvaguardare la propria salute e la propria sopravvivenza — è possibile intraprendere anche un lavoro di coppia. In questo contesto protetto, ciascuno può comprendere il proprio contributo al circolo vizioso e sperimentare forme nuove di vicinanza, in cui la protezione non sia più invasione e il legame non significhi più rinuncia a sé stessi.

Il cambiamento richiede tempo, impegno e il coraggio di guardare oltre la corazza o oltre la dedizione compulsiva. Ma è proprio in questo incontro con la verità di sé che si apre la possibilità di costruire relazioni più sane, basate non sulla paura di perdere l’altro, ma sulla gioia di potersi incontrare davvero.

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